Vale la pena di soffermarsi su alcuni concetti fondamentali.
Come dice Tilde Giani Gallino nel suo libro LA FERITA E IL RE, noi percepiamo l’aura di sacralità di alcune immagini particolari, spesso senza soffermarci a capire da cosa deriva. Questa percezione può infatti venire da una somiglianza con altre raffigurazioni già viste in precedenza ma accade anche che ci sentiamo all’improvviso colpiti e quasi sopraffatti da elementi figurativi e/o architettonici che ci stimolano emotivamente: ad esempio, il passare in barca sotto il ponte di un grande fiume o percorrere in bicicletta i vecchi tunnel ferroviari vedendone l’uscita luminosa sul fondo, hanno sicuramente un forte impatto sulla nostra psiche regalandoci sensazioni talvolta non gradevoli (ad esempio di paura claustrofobica) ma spesso più o meno di speranza gioiosa e vitale. Non a caso infatti in ambito economico o politico si parla di “luce in fondo al tunnel”. E’ quindi una sensazione che tutti conosciamo bene.

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Una sensazione simile la proviamo anche quando entriamo in un luogo di culto: l’ingresso è buio ma sul fondo, al termine della navata, l’altare è illuminato. Spesso l’abside presenta vetrate d’arte e decori che attirano lo sguardo ed inducono a considerare la navata (ovvero le difficoltà della vita) come un passaggio verso la luce.

Ecco ad esempio una foto della navata centrale nell’abbazia di Santa Maria di Arabona, a Chieti, fondata nel 1209 dai monaci Cistercensi e, accanto, l’Abbazia benedettina di Cerreto, vicino a Cremona.

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Si tratta quindi di un percorso che, già solo a vederne l’ingresso, induce in noi una sensazione particolare.

Per capire meglio è forse il caso di ricordare che il bambino – e quindi tutti noi – alla nascita compie un percorso simile: siamo passati (e con quanta fatica e forse dolore fisico e psicologico!) da un tunnel oscuro e ormai troppo stretto, alla luce.

Come disse il figlio di una mia amica quando all’età di quasi due anni vide per caso la foto della mamma incinta di lui: “Daniele aveva tanta paura!!”.

L’immagine del percorso e dell’entrata/uscita luminosa fa quindi parte di quelle emozioni inconsce, di quel bagaglio di sensazioni profonde, numinose, che riemergono in modo naturale quando si riproducono gli elementi figurativi o architettonici adeguati.

Si può definire come un archetipo collettivo, che Tilde Giani Gallino definisce come Imago templi, cioè l’immagine archetipica del tempio e quindi della sacralità. Immagine, luogo, edificio o insieme di edifici, che ripropone la sensazione della creatura di fronte al suo creatore, e che si ritrova in culture diverse, situate in tempi e luoghi molto distanti: “… dai templi megalitici di Malta a quelli delle isole britanniche (ricordiamo, uno per tutti Stonehenge). L’inconscio collettivo doveva infatti influenzare innanzi tutto gli architetti, in modo che la loro opera riuscisse a trasmettere un’immagine di sacralità … stabilendo quindi un’unica, collettiva, relazione mistica, che coinvolgeva chi edificava la struttura sacrale e chi ne usufruiva nel momento i cui penetrava nel tempio per comunicare individualmente con la divinità. …”

Torniamo quindi alle foto: quali sono gli elementi figurativi e geometrici che vediamo?

Le strutture raffigurate hanno tutte un’evidente sezione circolare o quasi circolare e presentano un foro di uscita rotondo. Nelle prime si evidenzia un’uscita vera e propria, nelle seconde l’abside dietro all’altare crea una chiusura che rimanda ad un livello superiore e divino.

In entrambi i casi la morbidezza delle linee e l’azione stessa del percorso dall’ombra alla luce, rendono chiara la derivazione fisica del passaggio della nascita; percorso che si compie nel corpo della madre, dopo una permanenza nella penombra dell’utero ampio e ricco di acque (probabilmente non per caso lungo la navata centrale è spesso collocato il fonte battesimale, con evidente richiamo alle acque uterine) e di nutrimento e calore. Poi sempre più stretto fino al materializzarsi di un tunnel, il canale del parto, unica uscita possibile.

Le forme tondeggianti sono talmente caratteristiche del senso di sacralità che facciamo fatica a trovare la giusta concentrazione nei templi che presentano linee rette, angoli e spigoli.

I progettisti più attenti utilizzano tutt’ora la forma rotonda: Le Corbusier nella splendida Cappella di Notre Dame di Haut Ronchamp (1955), estende e arrotonda il cornicione del tetto fino a farlo somigliare al fondo di una barca, evidentemente richiamandosi alla immagine divina di Gesù come pescatore di anime. Ma giova ricordare che la barca è un altro simbolo dell’utero, in quanto il corpo femminile è preposto ad accogliere e trasportare l’embrione nella sua nuova vita/incarnazione.

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La cappella, dedicata a Nostra Signora, è localizzata sopra un leggero rialzo collinare (mammellonare), al termine di un percorso “sacro” in mezzo al verde, che ci predispone all’incontro con la divinità, pronta ad accoglierci nel suo utero.

Recentemente (nel 2006) l’architetto Renzo Piano ha progettato un convento per le suore Clarisse ed un nuovo edificio per accogliere i visitatori.

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L’ammirevole progettazione coglie appieno il senso del luogo, abbracciando la pendenza della collina con morbide curve ascensionali che creano quasi una spirale (anche la spirale è simbolo risalente alla Divinità femminile preistorica), confermando ed enfatizzando il legame del luogo con il sacro femminile.

Altro risultato positivo della progettazione di Piano è che i nuovi elementi architettonici restano immersi nel verde dei boschi circostanti, e che oltre a rispettare la forma della collina, consentono alle Clarisse ed ai visitatori una invidiabile comunanza con la natura.

Immagino che nessuno dei due grandi (che io amo molto) si sia reso conto che stava usando simbologie riferibili alla multiforme divinità femminile di periodi preistorici molto precedenti l’inizio del neolitico.

Paola Bisio